Titre | “Le Opere pastorali” di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca. Edizione critica con commento |
Auteur | Alessandro MONGATTI |
Directeur /trice | Simone Albonico |
Co-directeur(s) /trice(s) | |
Résumé de la thèse | Quando Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca si accingeva, nel 1566, a consegnare ai censori dell’Accademia Fiorentina la sua raccolta di componimenti pastorali, la poesia bucolica in lingua volgare era ormai ben lontana dagli esordi pionieristici di un Giusto dei Conti o di un Leon Battista Alberti, ed a maggior ragione dall’antico esperimento boccacciano della Commedia delle ninfe fiorentine, che nel XIV capitolo aveva proposto una contesa pastorale rispettosa di tutti i crismi del genere. Dopo la pubblicazione a Firenze delle Bucoliche elegantissimamente composte (1482) ad opera di un gruppo di poeti toscani formato da Francesco Arzocchi, Iacopo Buoninsegni, Girolamo Benivieni e Bernardo Pulci, il panorama letterario italiano si era rapidamente popolato di Titiri e Melibei. Oltre a Siena e Firenze, è soprattutto la Napoli aragonese a fornire le prove poetiche più significative, dalla Pastorale di Iacopo de Jennaro all’Arcadia di Iacopo Sannazaro, il capolavoro del Quattrocento. Dopo che nello stesso torno di anni delle Pastorali aveva scritto anche Boiardo, l’egloghistica italiana era dilagata in tutti i centri italiani, ponendosi come forma letteraria alla moda, dotata di importanti modelli cui fare riferimento, sufficientemente duttile da accogliere una notevole varietà stilistica e tonale, da sempre adatta alla tematica d’occasione ed agli intenti encomiastici e celebrativi. A metà XVI secolo dunque, mentre la materia bucolica si avviava a rinnovarsi nelle forme della favola boschereccia guariniana e tassiana, la scrittura di una raccolta di egloghe era oramai considerata un’attività degnamente «ufficiale», che ben si confaceva al decoro intellettuale del letterato cortigiano come di quello accademico. In questo senso, la composizione di una pastorale dovette apparire al «reietto» Grazzini lo strumento più adeguato ai suoi progetti, sempre più volti alla riconquista del proprio posto nell’Accademia Fiorentina. Nata il 1 novembre 1540 col nome di Accademia degli Umidi per iniziativa di undici giovani fiorentini, tra i quali i personaggi più notevoli erano Giovanni Mazzuoli da Strada in Chianti detto lo Stradino ed il Grazzini medesimo, quella che doveva essere una semplice associazione di spiriti faceti e disimpegnati, amanti della poesia e della lingua toscana, viene quasi immediatamente sottratta al controllo dei fondatori e trasformata in uno strumento docile ai voleri di Cosimo de’ Medici, signore della città. Attraverso una lunga serie di riforme degli statuti (gennaio 1541, 1546, 1547, 1550, 1553) infatti, l’Accademia Fiorentina, come viene ribattezzata nel ’41, assume la fisionomia di un’istituzione statale, i cui dirigenti sono alle dirette dipendenze del Duca e che si disegna un ruolo culturale ufficiale, promotore di volgarizzamenti, «letture», produzioni originali, rigorosamente in toscano e con Dante e Petrarca eletti a numi tutelari e oggetto privilegiato di studio. Il 4 agosto 1547, per eliminare una buona volta le resistenze e lo scontento degli antichi fondatori oramai esautorati, i vertici dell’Accademia decidono un riesame della posizione di tutti i membri, con nuove cooptazioni e notevoli esclusioni. A farne le spese è, tra gli altri, proprio Grazzini, che rispetto al processo di trasformazione dell’Accademia si era sempre dimostrato critico, se non francamente ostile, e che soprattutto non aveva voluto, e in certa misura potuto, allinearsi ai nuovi interessi scientifici, filosofici ed eruditi proclamati nei documenti ufficiali sin dal 1541. Ritrovatosi escluso da quella che era anche una sua creatura, il Lasca sfogherà a lungo il suo disappunto e la sua frustrazione nelle rime e nelle commedie, con particolare acrimonia rivolta al partito degli «Aramei», come Gelli e Giambullari, sostenitori dell’origine caldea del toscano e da sempre principali suoi avversari nell’ambito dell’Accademia. Negli anni Sessanta la situazione mutò sensibilmente, soprattutto allorché Lionardo Salviati venne eletto alla carica più importante dell’Accademia, il consolato. Salviati era da tempo legato a Grazzini, ed esortò l’amico a domandare di essere riammesso all’Accademia. La procedura prevedeva in questi casi, oltre alla segnalazione del console, prerequisito soddisfatto dalla benevolenza di Salviati, la presentazione di un proprio lavoro e l’esame da parte di uno dei censori, che nel caso del Lasca fu Giovambattista Adriani. L’esame ebbe esito positivo, e Grazzini rientrò in seno all’Accademia il 6 maggio 1566 dopo venti anni di mal sopportata lontananza. Il manoscritto che il poeta consegnò al censore, autografo ed in bella copia, è conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze nel fondo magliabechiano (Magl. Cl. VII 1240), consta di 57 carte numerate precedute da 3 non numerate e reca sul frontespizio la dicitura Opere pastorali. In c. 40v si legge la formula di accettazione da parte di Adriani. Il codice conserva 10 Egloghe (cc. 2r-40r) che ne costituiscono la sezione iniziale (probabilmente l’unica consegnata al censore), seguite, in una seconda parte (cc. 41r-56v), distinta e aggregata in seguito in vista di una ipotizzata pubblicazione, da 60 sonetti di argomento bucolico (il che giustifica il titolo assegnato al manoscritto), più, a c. 57, ma in una carta sciolta soltanto successivamente aggiunta al manoscritto e scritta da altra mano, la canzone in morte di Cosimo de’ Medici. Consegnato agli archivi dell’Accademia Fiorentina, il manoscritto delle Opere pastorali scompare di circolazione e segue le vicende della fortuna del Grazzini, dimenticato per tutto il Seicento e riscoperto solo nel XVIII secolo da letterati ed eruditi fiorentini felici di poter riproporre l’opera di un illustre scrittore concittadino ed una inesausta miniera di lingua. L’importante edizione di Francesco Moücke intitolata Rime di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca (Firenze 1741-1742, in due volumi), costituisce una tappa fondamentale di questa rinnovata attenzione e può essere considerata il punto di partenza per la riesumazione della pastorale laschiana. Nella Vita scritta da Biscioni e posta a mo’ di introduzione all’inizio del libro, l’autore lamentava che «quell’Egloghe, per l’approvazione delle quali egli rientrò nell’Accademia Fiorentina, e che essere dovevano un componimento singolare, comecché fattogli esporre all’esame dall’intendentissimo di poesia, e già più volte lodato Cavalier Salviati, non si sa sinora dove possano ritrovarsi: e Giovanni Cinelli attesta nella sua Storia ms. degli Scrittori Fiorentini, che a suo tempo v’era un intero Volume dell’Egloghe del Lasca» (p. LIII, più avanti Biscioni propone una lista di opere grazziniane disperse e vi include le egloghe), mentre lo stesso Moücke, rivolgendosi A’ cortesi lettori in apertura del secondo volume, pronunciava il seguente auspicio: «E se per sorte mi potesse riuscire di ritrovare qualche copia di quell’Egloghe, che del Lasca, per consiglio di Lionardo Salviati, furono sottoposte alla censura dell’Accademia Fiorentina [come nella sua vita a LIII fu detto] ed inoltre quelle rime […] spererei di potere in breve adempire al mio intento» (p. V). Lamento e auspicio che dimostrano l’interesse per un testo conosciuto solo per sentito dire, ma che contrastano col fatto che a p. 100 e a p. 306 del II volume vengono edite rispettivamente la II e la X delle egloghe laschiane (con la semplice dicitura «Egloga») assieme ad otto sonetti appartenenti alle Opere pastorali (Alle lagrime triste, almo pastore, vol. I p. 14, nel ms. c. 44r; Spoglian le piagge l’erbe, e l’erbe i fiori, I.14, c. 44r; Come più dotto degli altri pastori, I.15, c. 45r; Pastor piangete, e voi Ninfe Toscane, I.13, c. 46v; Chiaman Ghiacinto, con pietosi accenti, II.240, c. 46v; Se noi lasciam perir la vaga e bella, I.10, c. 48v; Se mai preghi divoti in Delfo o in Delo, I.68, c. 48v; Non vedi, oimé, che circondato e cinto, I.68, c. 49r). Evidentemente il Moücke, pur non avendo rintracciato il «Volume» che rimpiangeva Biscioni, aveva ottenuto questi componimenti da codici intermedi che non dichiara, derivati dal Magliabechiano, come dimostra il fatto che i sonetti che pubblica erano per lo più già associati nelle medesime pagine dell’autografo (c. 44r, c. 46v., ecc.), ma che dobbiamo pensare già abbastanza corrotti, visto che il testo che Moücke ci presenta si discosta in alcuni punti assai nettamente da quello che leggiamo nel manoscritto. Pochi anni dopo Gaetano Poggiali riuscì a rintracciare il manoscritto nella biblioteca dei «nobili lucchesi» Giacomo e Cesare Lucchesini (come apprendiamo da una missiva a loro indirizzata da Domenico Poggiali, il figlio di Gaetano), apprestandosi a pubblicarlo con l’esclusione dei testi già editi nell’edizione del Moücke, chiosati di suo pugno nel manoscritto a margine con una nota («stampata»), accompagnata solitamente dal numero di pagina e, in coincidenza con la decima egloga, dal riferimento completo («stampata nella parte 2 pag. 306 delle sue Rime impresse in Firenze nel 1742»). L’edizione livornese intitolata Egloghe ed altre rime di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca ora per la prima volta accuratamente pubblicate [1799, ma in realtà 1816, dopo la morte del Poggiali], rinunciando a 2 egloghe e 8 sonetti, dissolveva l’unitarietà di una raccolta che, attraverso richiami, collocazione dei testi in posizioni strategiche, alternanze tra componimenti di argomento e tono diverso, numero delle singole tessere scelte (le egloghe sono 10, come in Virgilio), si organizza in Libro (tanto più che ad essere esclusi erano alcuni dei pilastri portanti dell’architettura dell’opera, come la egloga II, dedicata alla nascita di Francesco I e che forma con I, per le nozze di Cosimo I, un nucleo mediceo che colloca sin dall’inizio la raccolta sotto il segno dei Signori di Firenze; e come la egloga X, di argomento religioso, che assicurava alla sequenza dei testi pastorali lunghi una conclusione spirituale, sul modello della bucolica pubblicata da Luigi Alamanni nelle sue Opere toscane del 1532). Poggiali sacrifica insomma l’intento strutturale del Grazzini alla volontà erudita di presentare unicamente testi inediti. Riscontrate sul manoscritto, le sue trascrizioni si sono poi rivelate non soddisfacenti, gravate da modifiche arbitrarie e da vari fraintendimenti. Per rimediare in parte alla lacuna di Poggiali, e trascurando comunque gli 8 sonetti esclusi dall’edizione, Michel Plaisance ha recentemente trascritto le 2 egloghe escluse dall’edizione livornese in appendice al suo saggio La formation Littéraire de Lasca, incluso in Antonfranesco Grazzini dit Lasca (1505-1584), Vecchiarelli, Manziana, 2005. Fornendo un testo affidabile, ma comunque privo di un inquadramento storico-letterario.
Per quanto detto, si presenta come necessario approntare un’edizione critica delle Opere pastorali, restituendo alla comunità degli studiosi una serie di testi attualmente rintracciabili con fatica risalendo ad edizioni per lo più lontane nel tempo e di difficile reperibilità, che presentano testi spesso scorretti e che in ogni caso non restituiscono l’organizzazione strutturale assegnata da Grazzini alla raccolta, con un grado di coerenza e secondo artifici da valutare, ricostruire e descrivere. Inoltre, tutti i componimenti saranno corredati di un inquadramento e di commento puntuale, che renda percepibile al lettore la ricchezza letteraria dell’opera. Infatti, se l’autore per ottenere di essere riammesso all’Accademia Fiorentina presentò le 10 egloghe, è perché considerava i suoi testi pastorali quale saggio adeguato della propria competenza letteraria e intellettuale, che la sua predominante produzione comica e bernesca, densa di umori popolareschi, non poteva lasciar trasparire. Con l’applicazione e il puntiglio di chi vuol dimostrare quel che vale, Grazzini dialoga con un’intera, sterminata tradizione letteraria. Le potenzialità di un genere duttile come l’egloga vengono largamente esplorate. La pastorale grazziniana si apre dunque con un dittico encomiastico-celebrativo dedicato alla famiglia regnante dei Medici in occasione delle nozze del Duca (I) e della nascita del maschio primogenito (II). La III egloga compiange una «Gentildonna fiorentina, intesa per Amaranta» e chiude pertanto un trittico collegato ad occasioni esterne e con buona probabilità rispettoso dell’ordine cronologico di composizione. La IV egloga consiste in un dibattito sull’amore e sui suoi effetti, con un pastore vecchio e di sgradevole aspetto (Tirsi) ed uno giovane e grazioso (Melibeo) che esortano, il primo a respingere la perniciosa passione, il secondo ad accettarne la potenza. La V egloga è una contesa pastorale fra Galatea e Filli che cantano i rispettivi innamorati e con Tirsi chiamato a giudicarne la riuscita poetica. La VI è occupata dal canto di Mosso che esalta la bellezza dell’amata Lidia. La VII narra il sacrificio che Siringa offre a Venere per ingraziarsi la dea, mentre Mirtilla la invita a servirsi dei poteri di una vecchia incantatrice. La VIII è un’altra contesa pastorale, stavolta con protagonisti maschili, sul tema già frequentato dell’amore visto nei due aspetti di potenza creatrice e violenza devastatrice. La IX egloga consiste nel monologo disperato di Tirsi, che, lamentando la crudeltà dell’amata, finisce per uccidersi. La X ed ultima è di ispirazione religiosa ed è incentrata sul tema cristiano per eccellenza della Passione di Cristo. Tutto un repertorio di motivi contenutistici e strutturali che la tradizione metteva a disposizione viene convocato: dal contrasto tra la serenità del gregge e il dolore del pastore innamorato al sacrificio rituale per piegare la volontà degli Dei, dal canto amebeo di celebrazione alla disfida canora. Grazzini si muove tra i lontani modelli classici e le loro molteplici mediazioni, e gli ultimi coevi esempi del genere, riconnettendosi in questo modo con la più raffinata cultura poetica fiorentina del suo tempo, da Alamanni a Lodovico Martelli, a Benedetto Varchi. Al contempo, Grazzini dimostra la propria padronanza del materiale espressivo della migliore letteratura secondo il canone accademico e le aspettative dei letterati fiorentini, e fitte sono nei suoi versi le tessere dantesche, boccacciane e petrarchesche, ma anche bembiane e ariostesche. Da indagare è anche in che modo la strumentazione tecnica di cui Grazzini si era dotato in quanto autore di commedie e novelle venga applicata nei passaggi mimetici e in quelli narrativi. Andrà inoltre ricostruita la circolazione dei testi al di fuori del manoscritto Magliabechiano, e tentata la datazione dei singoli componimenti, verificando se e quando, a parte i casi espliciti, dietro il significante pastorale si celino rimandi al contesto coevo. Sono tutti aspetti, assieme a quello linguistico e lessicale, inevitabile avendo a che fare con un autore da sempre considerato “miniera di lingua”, che cercherò di trattare diffusamente nel commento.
Resta soltanto da sottolineare come la restituzione delle Opere pastorali in un’edizione completa, corretta filologicamente ed esaurientemente annotata sarebbe utile non soltanto alla ricostruzione di una personalità così interessante come quella del Lasca, ma anche all’indagine dell’ambiente culturale e letterario di Firenze, in un periodo cruciale come quello che vede la presa ed il consolidamento del potere di Cosimo De’ Medici, la guerra di Siena, la trasformazione della Toscana in Granducato, la successione di Francesco I, e che è tuttora oggetto di un forte interesse da parte degli studiosi.
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